La formazione dei ricordi familiari e fattori di rischio psicopatologico

Nello scenario moderno della ricerca in psicologia e in psicoterapia, la coscienza e la regolazione delle emozioni rivestono un ruolo primario. Autori della tradizione psicoanalitica classica si sono interessati di come un contenuto mentale cosciente venga rimosso nell’inconscio con l’intento di difendersi dall’ansia, mentre gli studiosi cognitivisti hanno rivolto la loro attenzione al perché alcune attività mentali non riescano ad acquisire la qualità della consapevolezza, anche e soprattutto nei casi in cui sarebbe importante che ciò avvenisse. L’interesse principale, difatti, è rivolto all’ “organizzazione” della conoscenza, consapevole ed inconsapevole (Liotti, 2001).

La conoscenza di sé è forse la più complessa opera della coscienza poiché include la capacità di “narrazione interiore”. Corrisponde alla memoria autobiografica e non è necessariamente presente alla consapevolezza, sebbene in stretta continuità con questa. Vi sono, infatti, due tipi di conoscenza: implicita (knowing how) ed esplicita (knowing that). La prima corrisponde al “sapere come” ed è costituita da schemi senso-motori ed emozionali, non esplicitabili attraverso il linguaggio e non necessariamente presenti nella coscienza riflessiva. Può essere sia a base innata (come la ricerca del capezzolo della madre da parte del neonato) che richiedere apprendimento (come il guidare). La seconda, il “sapere che”, è la conoscenza che si rende esplicita attraverso il linguaggio e può essere ulteriormente suddivisibile in memoria semantica (conoscenza in generale, composta di significati, simboli e dalla relazione che si crea tra questi) ed episodica (informazioni relative ad eventi specifici).

mindfulness psicoterapia

 

Interessanti studi sui neonati (Kotre, 1995; Meares, 1999; Nelson, 1992) hanno fatto supporre che la conoscenza segua un percorso che va dall’implicito al semantico e poi all’episodico. Anche Stern, 1985, ha definito RIG (Representations of Interactions that have been Generalized) le prime memorie semantiche risultate dalla generalizzazione ripetuta di schemi mnestici percettivo-emotivo-motori fra loro simili. Il neonato, ad esempio, quando ha fame dapprima “sa come” cercare il capezzolo della madre, poi “sa che” quando ha fame deve cercare il capezzolo, ed infine “sa che” (perché ricorda degli episodi specifici) se piange la madre lo allatterà. Quindi, la memoria implicita ha un primato temporale ed epistemologico su quella esplicita, e quella semantica detiene tale primato su quella episodica.

Nel corso dello sviluppo conoscitivo, il cognitivismo attribuisce un ruolo centrale alla conoscenza semantica, essendo questa deputata, attraverso la costruzione di strutture di significato, alla rappresentazione e organizzazione gerarchica della conoscenza. In quest’ottica la psicopatologia può essere determinata da disconnessioni tra la conoscenza episodica e la conoscenza semantica di sé, oppure da un mancato passaggio della conoscenza implicita in esplicita.

Bowlby (1988) è stato il primo ad aver proposto una lettura della psicopatologia in chiave di dissociazione tra diversi sistemi mnestici.

Grazie alla comune appartenenza al linguaggio, è possibile pensare, infatti, che sia facile e frequente che la memoria semantica e quella episodica si influenzino reciprocamente e che le interazioni reali tra il neonato e il caregiver possano avere un ruolo cruciale nello sviluppo della coscienza del bambino. I risultati della neuropsicobiologia evolutiva hanno ampiamente dimostrato quanto tali interazioni possano finanche plasmare la neuroplasticità del cervello del neonato (Schore 2003).

Il tipo di relazione che ciascuno di noi stabilisce con le Figure di Attaccamento (FdA) negli anni formativi della vita, determina, quindi, il successo del lavoro mentale che conduce alla conoscenza di sé. La congruità tra memorie semantiche e episodiche delle interazioni con le FdA riveste un ruolo essenziale in tale lavoro (Bretherton, 1985). Nella pratica clinica, Bowlby aveva riscontrato che tale assenza di congruità era, invece, frequente e per lo più causata dalle “pressioni interpersonali” (piuttosto che dall’angoscia generata da pulsioni inaccettabili): ad esempio, i ricordi episodici negativi della relazione con i genitori nei pazienti con uno stile di attaccamento evitante non erano coscienti, non perché troppo ansiogeni, ma poiché la coscienza era già occupata da conoscenze semantiche “idealizzate” dei genitori stessi. I pazienti, ad esempio, potevano riferire di avere avuto una madre molto affettuosa (memoria semantica) ma allo stesso tempo non riuscire a ricordare episodi specifici (memoria episodica) che dimostrassero tale affettuosità (Main et al., 2005). In tal senso le memorie semantiche e quelle episodiche non erano congrue.

Bowlby  (1976, 1988) definisce Modelli Operativi Interni (MOI) le rappresentazioni di sé con l’altro formatesi dalla sintesi delle memorie delle interazioni con le FdA. Secondo la teoria cognitivo-evoluzionista (Liotti, 1994) è primaria ed assoluta, ossia è innata, la disposizione a costruire una conoscenza esplicita di sé, dell’altro e di sé-con-l’altro.

La Gestione dei ricordi di attaccamento

Abbiamo visto come la “coscienza storica” (e quindi la conoscenza della propria storia e la possibilità di poterla condividere con un altro) si sviluppa a partire dalla dimensione interpersonale dell’esperienza umana (ossia nella relazione con gli altri) e l’essere umano è libero di attribuire autonomamente un significato diverso a numerosi eventi, ossia di dare un senso “soggettivo” alle proprie esperienze. Raccogliere e rielaborare i ricordi delle principali relazioni interpersonali ed il significato cognitivo ed emotivo a queste attribuitogli è di estremo valore (Aquilar, 2015). Il lavoro può essere centrato, principalmente, sulla necessità di evidenziare la natura contestuale – quanto più precisa possibile – di ogni esperienza interpersonale del paziente, limitando, così, la tendenza alla generalizzazione tipica della conoscenza semantica (Balsamo, 2015 ).

Come l’archeologo da pochi frammenti, grazie alle sue “conoscenze” tecniche e professionali, è in grado di ricostruire come era fatto un oggetto nel passato, così il terapeuta potrà ricostruire insieme al paziente il possibile ambiente familiare e il possibile stile di attaccamento che hanno prodotto quell’immagine. Ma, proprio come un archeologo, il terapeuta potrà riuscirvi solo se possiede una conoscenza dettagliata a priori sui processi di sviluppo dei diversi stili di attaccamento (sicuro, insicuro e disorganizzato) e sa come ciascuno di essi possa dare luogo ad un tema specifico di significati. Il metodo elettivo nel recupero e nella gestione di un ricordo familiare, è quello di lavorare sempre nell’interfaccia tra la memoria episodica e la memoria semantica relativamente ad un dato ricordo (Veglia, 1999).

Main e Goldwyn (1989) hanno messo a punto un’intervista sulle esperienze di attaccamento dell’adulto, la “Adult Attachment Interview” (AAI) che ha consentito di individuare quattro categorie relative allo stato mentale dell’adulto nel ricordare e narrare le proprie esperienze infantili di attaccamento, evidenziando che le persone possono differenziarsi:

1) nell’accesso stesso ai ricordi autobiografici

2) per contenuti, per facilità e flessibilità con cui possono parlarne

3) nella capacità di riflettere sul contenuto della propria mente e di quella dell’altro che ascolta

4) nel monitorare il proprio discorso (verificare di essere comprensibili).

Individui “sicuri” (classificati F, Free) mostrano la capacità di ricordare “liberamente” le proprie passate esperienze di attaccamento e di avere numerosi ricordi di aiuto e sostegno emotivo fornito dai genitori in momenti difficili. Persone “evitanti” (Ds, Dismissing) riferiscono, invece, diversi ricordi di evitamento o scoraggiamento delle proprie richieste di attaccamento (anche quando il genitore era presente e non lavorava) e, talvolta, di essere stati particolarmente spinti verso il conseguimento di obiettivi molto elevati. Dimostrano, inoltre, una scarsa capacità di ricordare la propria infanzia e un’alta idealizzazione delle figure genitoriali. Adulti, infine, “invischiati” (E, Entangled), nell’atto stesso di ricordare esperienze del passato con le FdA, si mostrano “preoccupati”, emotivamente ancora fortemente coinvolti (talvolta confusi) e riferiscono numerosi ricordi in cui il genitore non aveva risposto come desideravano alle proprie richieste di attaccamento.

L’aspetto più interessante dell’intervista consiste, inoltre, nell’aver evidenziato le diverse capacità di accesso ai ricordi del passato e di espressione di tali ricordi. Gli individui sicuri hanno uno stato mentale “libero” perché più capaci di riflettere e di valutare realisticamente anche esperienze negative del passato, mentre è evidente la differenza con le altre categorie: i Dismissing non sono in grado di notare le incongruenze tra l’immagine idealizzata del genitore ed i ricordi, per lo più negativi, delle interazioni con quest’ultimo; gli Entangled non riescono a cogliere il punto di vista dell’altro e ad assumersi le proprie responsabilità con un loro ruolo attivo nella relazione. Infine, nel momento in cui sono affrontati i temi relativi a lutti, abbandoni o situazioni traumatiche, alcuni individui possono mostrare degli errori nel monitoraggio del discorso e del pensiero, ricevendo una ulteriore classificazione di “irrisolti” (U, Unresolved) (Onofri e Tombolini, 2004).

Non mi dilungherò qui nell’esemplificazione dei risultati della ricerca empirica sull’attaccamento, largamente e lungamente esplorata e spiegata da numerosi psicologi e clinici, ma ciò che è importante tener presente è che pattern di attaccamento insicuro o disorganizzato comportano un (alto) rischio di un conseguente deficit metacognitivo e, quindi, una maggiore difficoltà nella gestione di memorie di attaccamento problematiche.

Il tipo di relazione che contraddistingue l’attaccamento disorganizzato (in cui l’emozione dominante è la paura) favorisce, ad esempio, una propensione a stati alterati della coscienza nel ricordare episodi della propria infanzia con i genitori. Tale stato alterato della coscienza è un indicatore delle difficoltà nello sviluppo delle capacità metacognitive o della TdM, ossia il fallimento delle operazioni di sintesi ed organizzazione della coscienza (Liotti e Farina, 2011). Ne derivano una scarsa capacità di comprendere la natura circostanziale e temporanea delle emozioni, un’incapacità a cogliere i nessi tra le esperienze emotive e l’ambiente, e gravi difficoltà nel saper assegnare a ciascuna emozione una descrizione verbale appropriata, a partire dal nome.

Relazioni di attaccamento sicuro, così come stati mentali mindful, favoriscono, al contrario, la capacità di mantenere un atteggiamento “mentalizzante” e riflessivo anche nel rievocare episodi dolorosi del passato. Un training fondato sulla mindfulness non solo può migliorare le relazioni di attaccamento in direzione della “sicurezza” (Di Manna, 2015), ma può aumentare le capacità, come vedremo in seguito, di narrare, descrivere e rielaborare nel presente ricordi delle esperienze di attaccamento passate, ossia di aumentare la capacità del paziente di riflettere sui propri contenuti mentali anche quando sono attive memorie di attaccamento insicuro e/o disorganizzato. La mindfulness consente, infatti, nel tempo di imparare ad osservare e ad integrare memorie implicite (schemi senso-motori ed emozionali automatici) ed esplicite (semantiche ed episodiche), oltre che di sviluppare un’attenzione flessibile e “aperta” all’esperienza, in grado di armonizzare nel presente le esperienze del passato.